sabato 4 aprile 2020

Ho perso il conto dei giorni di Silvia Carpitella



Il 9 marzo scorso, verso le dieci di sera, ricevetti una telefonata da mia madre, telefonata a cui non risposi immediatamente, dal momento che avevo scordato il cellulare in modalità silenziosa. Quando, dopo pochi minuti, trovai la chiamata e pigiai il tasto verde per richiamare, una sensazione d’ansia si impadroniva progressivamente di me: mia madre non chiama mai a quell’ora, doveva essere successo qualcosa. “Ehi Silvia mia” “Mami dimmi” “Hanno appena bloccato l’Italia, mi sa che avrai difficoltà per tornare” “Che significa ‘hanno bloccato l’Italia’?” “L’intera Italia è stata appena dichiarata zona rossa per emergenza coronavirus”.

In quel momento avevo appena terminato un’esperienza di ricerca in Inghilterra. Quello stesso giorno avevo chiuso le mie valigie, lasciato il mio appartamento in affitto, avuto l’ultimo meeting di lavoro e preso un treno da Sheffield per Londra, dove il mio aereo per tornare a casa sarebbe partito tre giorni dopo. Aereo che decisi di non prendere, restando bloccata in terra straniera fino a data da destinarsi, momentaneamente senza casa, piena di bagagli e di confusione in testa.

L’Italia è stata il primo paese d’Europa ad aver preso serie misure di contenimento del virus, primo Paese per numero di contagi dichiarati. Dichiarati, appunto. Anche a distanza di settimane, rimane la forte sensazione che gli altri Paesi abbiano in principio affrontato il problema con imperdonabile leggerezza, manipolando i dati reali, cosa che ha avuto certamente impatto negativo sulla formazione di una coscienza consapevole nei cittadini. Ecco che per me, così come per tantissimi altri italiani residenti all’estero, la notizia di blocco del mio Paese giunse come una doccia gelida. Mi ero sempre tenuta informata ma non avevo fino a quel momento percepito il pericolo come “reale”, dal momento che in Inghilterra la vita continuava a proseguire normalmente.

Nei giorni immediatamente successivi, tra discorsi sull’immunità di gregge e indifferenza dell’Europa verso quello che ovviamente è un problema comune, non soltanto italiano, iniziai a maturare un profondo orgoglio per le posizioni assunte dall’Italia, orgoglio che ad essere sincera non mi accadeva di provare da parecchio tempo. In questo momento storico, le cose funzionano meglio da noi piuttosto che all’estero, e dobbiamo farci caso. Stiamo dando una sorta di lectio magistralis di civiltà, dimostrando davvero di tenere alla salute delle persone più che all’economia. Perché se una nazione non si sa fermare in questo momento di emergenza mondiale e, soprattutto, non ha a cuore la tutela dei propri figli più vulnerabili, non si può affatto parlare di progresso.

Quali sono le cose che il coronavirus mi ha tolto? In realtà, a ben pensarci, non mi ha tolto nulla di davvero importante. Tutte le persone che amo stanno bene. Tutto il resto passa tristemente ma inesorabilmente in secondo piano: sembra non ci sia spazio adesso per sogni e progetti personali. Eppure ne avevo così tanti, grandi e variegati.
Da Londra ritornai quindi a Sheffield, dopo aver affittato in fretta e furia un monolocale dove mettermi in isolamento volontario (eh già, l’Inghilterra avrebbe poi adottato misure di sicurezza simili a quelle messe in campo dall’Italia soltanto molti giorni dopo). Una volta chiusa nel mio piccolo appartamento sentii di essere come in una prigione e, quella sera, una nostalgia e una tristezza infinite si impossessarono totalmente del mio cuore.

Libertà. Un diritto inalienabile, un concetto talmente tanto scontato da sembrare quasi banale, finché non si è costretti a sacrificarla, in questo caso, in virtù di un bene superiore. Mi commuove vedere come la maggior parte dei miei concittadini giudichi come bene superiore la salute e la tutela dell’altro, non soltanto perché una legge di restrizione della mobilità lo impone ma soprattutto perché la propria coscienza civica l’ha reso un dettame morale. Mi commuove vedere l’esplosione di creatività, la trasmissione di messaggi positivi per farsi forza l’un l’altro, l’ideazione di tante forme nuove di comunicazione e iniziative per fare in modo che questo tempo non sia sterile, che porti frutto.

Sono un’appassionata viaggiatrice, mi definirei uno spirito libero e selvaggio che ama profondamente la relazione con le persone. Più di tutti i miei viaggi, questo è ciò che mi manca davvero. Mi riscopro ad avere paura nel non mantenere le dovute distanze di sicurezza dalle altre persone quando vado a fare la spesa, a voltare il viso scansandomi di scatto quando qualcuno mi passa inavvertitamente accanto. Questo è ciò di cui mi stanno davvero privando questi tristi giorni. L’impossibilità di stringere una mano a uno sconosciuto, di scambiare qualche battuta con la cassiera, di avere una conversazione per strada, seppur minima. È questo che, per prima cosa, vorrò riprendermi: la certezza che il contatto con l’altro non è pericolo ma estrema ricchezza.

Per il resto, ho nitide nella mia mente le immagini del mio ultimo viaggio in Islanda, tra ghiacciai, distese innevate, prorompenti cascate, imponenti vulcani, scenari indescrivibili che mi hanno fatto versare lacrime di emozione. Allo stesso modo, vivono nel mio cuore i fiordi norvegesi, le scogliere irlandesi, le lagune scozzesi, le sierre brasiliane, i luoghi di culto giapponesi, i tramonti greci, il sole spagnolo, i colori portoghesi, l’aurora boreale finlandese e tanto, tanto, tanto altro ancora. Scorci dei miei viaggi e ricordi che il virus non può togliermi e che, prepotenti, si ostinano a farmi compagnia nei momenti di maggiore solitudine ricordandomi che, molto presto, torneremo a scoprire il mondo. Probabilmente con un sapore diverso, ancora più intenso.

Il mondo resta lì per noi, si farà presto ritrovare pulito, rigoglioso e rinnovato, regalandoci la possibilità di assaporare ancora di più il momento in cui ci immergeremo in lui. Sarà una sensazione meravigliosa, eppure sembra davvero così poco importante adesso che le priorità sono bruscamente cambiate.
Come ha detto il Presidente del Consiglio Conte: “la lista dei morti è una ferita aperta, alla fine ci saranno tanti patrioti”. Pensiamo a loro e alle loro famiglie, e chiediamoci se stiamo davvero vivendo male questa quarantena oppure se siamo smisuratamente fortunati, anche se costretti in piccoli spazi o lontani da casa, per la sola possibilità di poter prendere il telefono, sentire la voce delle persone che amiamo e saperle in salute.

The social directors

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